BIRILLO
io caro amico dell’uomo,
con pazienza attendi,
il mio rientro,
recriminando tu mai.
In te trovai il conforto,
negatomi dai miei simili.
Quando Birillo morì, mia figlia Sara, di otto anni, entrò
in crisi. Lui aveva sette anni, quindi erano cresciuti assieme.
Non è facile per un padre crescere una bambina senza la madre,
e la presenza di Birillo mi aiutò moltissimo. Aveva una tremenda
malattia del sistema immunitario. Avrebbe sofferto pene atroci,
perciò lo feci addormentare, senza che la mia bambina ne fosse
mai al corrente. Birillo era un meticcio, diciamo una specie
di Pastore Tedesco, solo più piccolo, ma lo possiamo chiamare
Pastore Tedesco proprio a grandi linee, tanto per farci un’idea.
Mia figlia, quindi, si chiuse in se stessa. Non parlava mai,
non mangiava quasi nulla, non voleva più uscire di casa e
passava le giornate guardando vecchie foto del cane. In una
di queste c’era Birillo che, con un parrucchino in testa e
un paio di occhiali da sole appoggiati sul suo lungo muso,
posava accanto a mia figlia mascherata da fata turchina. Vedendo
questa foto, mi si lacerò l’animo.
“Non abbia paura, le passerà. Tutti i bambini ai quali muore
il loro amichetto a quattro zampe si comportano così, ma nel
giro di qualche settimana tutto passa, si fidi. Le compri
magari un altro cane; ecco, questa sarebbe una bella idea!”.
Questa era la sentenza del neuropsichiatra infantile da me
interpellato, che più che uno psichiatra, sembrava il tenente
Kojak in una casa di riposo. Le passerà. Nel frattempo, non
le passava affatto. Di prendere poi un altro cane non ne voleva
nemmeno sentir parlare: “Voglio Birillo, non un altro, ma
Birillo voglio”. Mia figlia era depressa, ma io non stavo
certo meglio. Guardarla in quello stato, mi riempiva di malinconia
e di senso di colpa. Cosa stavo facendo per aiutarla? Niente,
non riuscivo a fare nulla. Tentavo di farla mangiare un po’
di più, ma lei rovesciava il piatto per terra e scappava in
camera sua.
La casa, senza Birillo, sembrava esageratamente enorme. Inutile.
Vivevamo in una villetta in campagna, una costruzione su due
livelli, con un balcone e un ampio giardino. Quanto correva
il cane per quel giardino! Mi domandavo se stessi compiendo
il mio dovere di padre fino in fondo. Sarei dovuto essere
forte per mia figlia, ma non lo ero. Sara era quasi anoressica,
non frequentava più nessuno e io non riuscivo a fare nulla
per aiutarla. Dovevo forse farle prendere dei farmaci? Se
Veronica fosse stata ancora viva, le cose sarebbero andate
diversamente, lo sento. Ma Veronica non aveva in pratica neanche
conosciuto Sara. Morì due giorni dopo il parto. Due valvole
cardiache non le funzionavano correttamente. I medici le avevano
detto che era da pazzi portare avanti una gravidanza in quello
stato. Ora era tutto sulle mie spalle.
Quando raggiungemmo il fondo, scendemmo ancora più in basso:
mia figlia, iniziò a parlare da sola. Un giorno, trovandomi
vicino la sua camera, la sentii bisbigliare qualcosa. Aprii
appena la porta e la osservai mentre diceva qualcosa al muro.
Non ebbi il coraggio di domandarle nulla, richiusi la porta
e me ne andai in cucina.
Perfetto, ora parlava anche da sola! Fosse stato solamente
il parlar da soli passi pure, i bambini a volte lo fanno,
ma seguirono altri eventi che mi fecero venir voglia di sotterrarmi.
Sara, giocava a palla. Che c’era di strano? C’era di bizzarro
che non si limitava a tirare la palla in aria per poi riprenderla
come fanno tutti i bambini della sua età, no, lei la tirava
in fondo al giardino, e poi aspettava che qualcuno gliela
riportasse. Qualcuno? Ma la palla ovviamente non le veniva
mai riportata, così lei diveniva tutta rossa e sbottava urlando:
“Uffa! Ma perché non la riporti?!”. A volte poi correva per
il giardino ridendo, come se stesse scappando da qualcuno.
Si nascondeva magari dietro un albero, per poi poco dopo uscir
fuori di scatto e ricominciare la sua corsa solitaria. Che
voleva dire tutto ciò? fingeva forse che Birillo fosse ancora
assieme a lei?
Allora mi feci coraggio e andai da mia figlia: “Sara, mi dici
con chi parli e giochi tutto il giorno?” “Ma con Birillo no!”.
E certo, potevo anche capirlo da solo, giusto?
Bisognava comunque dire che mia figlia, da quando parlava
da sola, era molto migliorata. Mangiava con appetito e rideva
sempre. Un giorno, mi chiese: “Papà, ma perché non compri
mai da mangiare per Birillo? Lui ha tanta fame, corre tutto
il giorno”. E così, comprai da mangiare per Birillo! Solo
che lui non mangiava mai e io, la sera tardi, buttavo tutto
il contenuto della ciotola nella spazzatura. Una volta ero
esasperato al punto tale che mentre mia figlia lo stava ‘accarezzando’,
mi avvicinai ed esclamai: “Fammi un po’ toccare questo cane!”.
“Papà! Gli stai ficcando un dito in un occhio!”.
Scappai via come un contestatore disperso dalla polizia.
Un pomeriggio di giugno mi trovavo sul balcone intento a pulire
le tegole del tetto dagli aghi di pino, l’aria era calda,
afosa, le cicale si stavano svenando in un canto senza note,
un canto di morte premonitrice. Ero da poco salito sulla scala,
quando un Mastino Napoletano scappato da chissà dove, si introdusse
nel mio giardino e puntò, non so per quale assurda ragione,
al collo di mia figlia.
Non gli fu concesso di avvicinarsi a meno di dieci centimetri
dal collo di Sara perché, non appena raggiunta detta distanza,
venne, non è dato sapere in base a quale legge fisica, scaraventato
indietro. Tentò nuovamente una seconda volta ma, non solo
fu di nuovo scagliato indietro , ma questa volta, non appena
fu a pancia all’aria dopo la caduta, rimase immobile, con
le zampe rivolte verso l’alto. Io, da consueto imbecille pusillanime,
non ebbi neanche il nerbo o la prontezza di scender giù, ma
rimasi col volto sbiancato, ad osservare la scena. Il mastino
giaceva sempre immobile mentre mia figlia, rimasta a pochi
metri dal cane, urlava frasi a me incomprensibili. Il mastino
cominciò ad emettere dei latrati strazianti. Ogni tanto il
suo corpo sussultava. Dopo un po’, dal suo collo cominciò
a fluire sangue. Il cane ululava in maniera tale da far capire
che era allo spasimo.
Oramai dal suo collo zampillava così tanto sangue da sembrare
la Fontana delle Novantanove Cannelle. Finalmente, la bestia
si placò. Ora era inerte sul serio. Con le gambe all’aria,
aveva un’aria quasi comica, sembrava un insetto morto stecchito.
Alla fine, trovai la forza di muovermi e scesi giù quasi volando,
verso mia figlia. Giunto sul luogo del delitto, in preda a
un delirio di probabili spiegazioni, lo vidi. Era fermo, accanto
a mia figlia, che lo stava abbracciando accucciata per terra.
I suoi occhi, occhi quasi umani, penetravano i miei. Mi avvicinai.
Avevo paura. Sollevai una mano e lo accarezzai sul muso. Percepii
un corpo solido, reale; vivo. Riuscii a sentire il suo tartufo
umido, proprio come doveva essere. Ad un tratto il cane si
fece traslucido e attorno a lui si levò una luce azzurra.
Si fece via via più cristallino e, prima di dissolversi del
tutto, mi sorrise! Lo so, i cani non sorridono, ma lui sorrise.
Birillo era stato fatto tornare per aiutare mia figlia, e
aveva trovato la forza e il coraggio di lottare e sconfiggere
un cane grande il doppio di lui. Una grande prova d’amore
e d’altruismo.
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Di tanto in tanto, sento ancora mia figlia parlare da sola.
Ma in realtà, so che non parla da sola. So che non è pazza.
Sono più che convinto che non mi crederete, penserete che
io sia veramente alienato, ma io so di aver visto Birillo.
Lo so perché, vedete, io… Ho sentito il suo tartufo umido!
Andrea Mucciolo
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